Anton Cechov, “Racconti”

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Invece di segnalare un libro specifico, questa settimana vorrei fare un invito: l’invito a prendere o riprendere in mano qualcuno dei molti racconti di uno scrittore che già in vita era molto celebre e molto amato, Anton Cechov.

Purtroppo manca al momento in commercio un’edizione integrale in italiano, ma diverse sono le pubblicazioni che propongono una ricca scelta (Rizzoli, Feltrinelli, Garzanti) e molte ce ne sono state negli anni passati. Io mi sono affidata alla bella raccolta in due volumi uscita in Mondadori nel 1996, purtroppo non più reperibile – sarebbe bello se l’editore pensasse a una ristampa – che riporta l’introduzione dello slavista Igor Sibaldi e, come postfazione, uno scritto di Vladimir Nabokov.

La letteratura critica dedicata a Cechov è amplissima e io non ho alcuna parola significativa da aggiungere. Vorrei semplicemente riportare la mia esperienza di lettrice che per alcune ore si è dedicata con entusiasmo ad alcune, solo alcune, delle sue numerosissime narrazioni, consapevole di non aver esaurito ciò che esse hanno da dirmi e del piacere con cui vi tornerò di tanto in tanto. L’opera di Cechov si presta d’altronde a una lettura episodica, poiché ogni prosa è a sé e non rimanda ad altro. Ognuna ha qualcosa da dire anche a chi non conosce nulla né dell’autore né delle analisi che ne sono state fatte. La scrittura di Cechov, poi, è piana e semplice, non ricorre ad artifici retorici, non cerca l’effetto; direi che non perde mai l’aderenza al suo oggetto: la psicologia umana.

Non tutti amano i racconti, ma sembrerebbe che Cechov abbia trovato proprio nella lunghezza (a dire il vero molto variabile) del racconto la sua dimensione perfetta. Nei suoi scritti non ci sono infatti azioni grandiose, intrecci complessi o vicende di grande respiro, bensì uno sguardo alla vita quotidiana delle persone comuni. Ma non c’è mai ripetitività. Troviamo invece una grande varietà di caratteri e di situazioni, pur all’interno di un orizzonte storico, geografico e culturale che resta sempre il medesimo: la Russia tardo ottocentesca. I suoi personaggi sono quasi sempre membri della borghesia (funzionari, medici, professori, impiegati, artisti, studenti) e nessuno di questi è un eroe.

È proprio questo l’elemento che ho trovato più affascinante, la capacità di Cechov di cogliere con sottigliezza l’inconcludenza, l’insoddisfazione verso se stessi e la propria vita, il desiderio di qualcosa d’altro, l’agitarsi di una volontà vaga di cambiamento che non si sa tradurre in azione, l’indugio, la vanità che si risolve in nulla, la coesistenza all’interno dello stesso individuo di debolezza e aneliti di grandezza, l’oscillazione tra pensieri e stati emotivi diversi che blocca nell’inerzia e fa sì che non si abbia mai una presa sulla realtà. È impossibile non riconoscersi nei moti dell’animo descritti così acutamente nel racconto La seccatura. Se in alcuni racconti la dialettica è tutta interiore, in altri, come nel bellissimo La casa con il mezzanino (racconto di un pittore) il contrasto tra le idee su come intervenire per migliorare il mondo diventa esplicito – e intanto, però, si lascia dileguare la possibilità di vivere la propria vita e l’amore.

L’osservazione così fine dell’animo umano non sfocia mai in un giudizio morale. Cechov non propugna né valori né ideali e men che meno indica la via per dare senso all’esistenza. Si limita a registrare avvenimenti e dinamiche interiori e a mostrare l’impasse in cui si trovano i suoi personaggi; un’impasse che si rivela connaturata alla condizione umana. Eppure nelle sue pagine non troviamo la tragedia, bensì piuttosto una quieta tristezza, alla cui resa contribuisce la descrizione dei paesaggi e degli elementi naturali, specchio e complemento espressivo della vita emotiva umana.

Cechov divenne famoso presso i suoi contemporanei grazie ai racconti comici. La E/O ha pubblicato una scelta di Racconti umoristici che strappa più di un sorriso. Questa vocazione alla comicità mi sembra affievolirsi nel tempo e farsi più raffinata, ma non scompare mai del tutto, trasformandosi in ulteriore strumento per mettere in luce l’elemento patetico che abita molte vite, come ne L’uomo nell’astuccio.

Concludo con una citazione, tratta dal breve racconto Paura: 

“Ditemi, mio caro, come mai quando vogliamo raccontare qualcosa di spaventoso, misterioso e fantastico, attingiamo il materiale non dalla vita, ma immancabilmente dal mondo dei fantasmi e degli spettri ultraterreni?” 

“Fa paura quello che non si capisce.” 

“Perché, la vita la capite? Ditemi: la vita, per caso, la capite più del mondo ultraterreno?”

Francesca

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