Aravind Adiga, “La Tigre Bianca”, Einaudi (2008 e 2017)

Acquistalo qui

Aravind Adiga, “La Tigre Bianca”, Einaudi (2008 e 2017)

Ho appena riletto il romanzo con cui l’allora esordiente Aravind Adiga vinse il Booker Prize del 2008 e da cui è stato tratto un film con lo stesso titolo; ho ritrovato intatto il piacere di immergermi nella sua prosa caustica, amara e al contempo piena di spirito. Il particolare impasto di comicità e crudezza, sarcasmo e dramma è uno dei punti forti del libro, che racconta l’ascesa del protagonista, Balram Halwai, dall’estrema miseria di un villaggio nell’India rurale al successo imprenditoriale a Bangalore, vivace centro della nuova economia tecnologica.

Il romanzo è formato da alcune lettere che Balram, “uomo d’azione e di cambiamento”, scrive a un fantomatico primo ministro cinese in procinto di giungere in visita in città. Lo scopo di Balram è prevalentemente didattico: intende indicare al ministro straniero come formare una nuova classe imprenditoriale, portandogli l’esempio concreto del suo percorso e delle iniziative grazie a cui, da orfano di un conducente di risciò, destinato sin dalla nascita a un’umile vita da servo, è arrivato a fondare un’azienda e a conquistarsi un posto di tutto rispetto. Mentre racconta la sua vita, questo antieroe offre anche uno sguardo dal basso sul mondo in cui gli è toccato nascere, lo sguardo di un servo su una società dove l’iniquità, lo sfruttamento e le caste sono sempre esistiti, ma oggi più che mai schiacciano i deboli. È qui che globalizzazione e capitalismo finanziario palesano il loro risvolto più oscuro: esacerbare i divari tra ricchi e poveri, indebolire le tradizionali dinamiche di regolazione sociale, soppiantandole con la pura e semplice legge del più forte, con la libera competizione tra gli attori economici; con “la legge della giungla”, insomma. Ne consegue che le “mille caste e mille destini” dell’India del passato si sono ridotte di fatto a due: padroni e servi, profittatori e vittime. E chi non vuole rassegnarsi alla sottomissione e alla miseria non può che imboccare la strada della prevaricazione. In questo mondo, solo chi è disposto a ingannare, derubare e uccidere può diventare padrone di sé e di un congruo patrimonio; insomma, può diventare un grand’uomo.

Con il suo linguaggio colloquiale e la sua tagliente, disincantata irriverenza, Balram parla di una società che ha accantonato ogni remora e ogni norma e premia solo l’egoismo, in famiglia come nella politica, dove ipocrisia e malcostume raggiungono l’apice, sebbene nascosti dietro una cortina di proclami mendaci. Balram, che non a caso da piccolo ha ricevuto l’appellativo di Tigre Bianca, come il più raro dei felini, ambisce a emanciparsi dal posto a cui appartiene, in quella parte dell’India che lui chiama le Tenebre, ossia le regioni contadine lungo il Gange. Il grande fiume sacro, da portatore di fertilità e vita, si è ormai trasformato in un “fiume di morte”, nel cui fango denso e scuro ogni cosa resta intrappolata. Nelle Tenebre la vita è durissima, i debiti sono assillanti e tutto è nelle mani di pochi, che tengono in pugno l’intera popolazione. Astuto e determinato, Balram si fa assumere in casa di un possidente e si fa scegliere come autista personale di suo figlio, Mr Ashok, in procinto di trasferirsi a Dehli insieme alla sua capricciosa moglie, per curare gli affari di famiglia, ossia garantirsi i favori del governo grazie a laute tangenti. Dallo specchietto retrovisore dell’auto, Balram osserva Mr. Ashok, quest’uomo alto e bello, che è stato educato in America ed è gentile con tutti, domestici inclusi. O almeno così sembra inizialmente. Basteranno pochi mesi in India a dissolvere la patina di buoni propositi e buona creanza e a trasformarlo in un padrone come tutti gli altri: indifferente, corrotto e corruttore. Quando Balram si rende conto che anche Mr. Ashok possiede una natura amorale, avida e ingrata, e lui stesso non è altro che un servo di cui disporre a piacere, la sua fedeltà si sgretola e decide di prendersi da solo la libertà che nessuno è intenzionato a dargli.

L’India che troviamo nel romanzo non è il paese di grandi scenari naturali e molte divinità, di spezie, monsoni e sari, ma un teatro di contrasti netti: luce e tenebre, melma e scintillio, padroni e servi. È un mondo in cui la maggioranza vive come i polli in una stia, docili e rassegnati al loro destino, in cui la coazione a servire e obbedire è stata inoculata da sistemi educativi e consuetudini millenarie. La “Stia per i Polli” è una delle tante, significative immagini che costellano il romanzo e che spesso fanno capo ad animali, a cominciare dal nostro Balram, che si considera una Tigre Bianca, ma che a Dehli verrà chiamato dai suoi colleghi Topo-di-Campagna; sono molti i personaggi accostati ad animali, con l’effetto di indicarli come rapaci, subdoli, crudeli, oppure tali da suscitare disprezzo o disgusto. Altrettanto espressiva è l’immagine delle masse popolari come composte da individui “cotti a metà”: alfabetizzati, ma non abbastanza per riuscire a elaborare le informazioni che ricevono da ogni parte e che finiscono per produrre “idee formate a metà, digerite a metà e giuste a metà”, che generano “altre idee formate a metà, con cui poi ci tocca convivere e su cui finiamo per fare affidamento”. Per uscire dalla stia e costruire la propria fortuna occorre essere intelligenti, ambiziosi, instancabili, saper sfruttare le occasioni e avere grandi capacità di osservazione e apprendimento, oltre che mancanza di scrupoli. Proprio come una Tigre Bianca.

Francesca

Segnalibro