Donatella Di Pietrantonio, “L’età fragile”, Einaudi (2023)

ACQUISTA

La ventenne Amanda torna a casa dalla madre, in un paese in provincia di Pescara, dopo aver vissuto una brutta esperienza a Milano. Aveva scelto lei questa città per i suoi studi e vi si era trasferita piena di entusiasmo e fiducia nel futuro, proiettata lontana dall’Abruzzo anche nella decisione di iscriversi a Scienze internazionali e Istituzioni europee. Invece rientra anzitempo, complice la pandemia che poco dopo bloccherà la gente in casa e renderà impossibile spostarsi. Ma Amanda non rientra a causa del lockdown: sebbene non dica nulla, è chiaro che nel suo ritorno c’è “qualcosa di oscuro e definitivo”. La ragazza che riprende possesso della sua stanza è spenta, apatica, sofferente e silenziosa. Non studia, non esce, non usa il cellulare, mangia poco, trascorre il tempo rintanata sotto le coperte. Sembra aver chiuso la porta tra sé e il mondo.

A parlarci di lei è sua madre Lucia, impotente di fronte agli atteggiamenti incomprensibili e imprevedibili di una figlia ormai oltre l’adolescenza, che non si confida e non può essere guidata come una bambina e tuttavia è rientrata a casa come a cercare una protezione. Amanda ignora gli incoraggiamenti a reagire, respinge con ostinato mutismo ogni tentativo di comunicare con lei. Lucia la osserva preoccupata, spia gli indizi del suo malessere, si interroga sulle proprie colpe. Ha sofferto quando Amanda è partita per Milano, ma era anche contenta di vederla incamminarsi nel mondo. Invece il mondo l’ha delusa, l’ha spaventata e svuotata e lei, sua madre, non c’era. L’ha lasciata troppo sola e troppo esposta, pensando che “un posto che aveva tanto desiderato non poteva farle del male” e che dovesse rispettare la sua libertà. Adesso sono tornate ad abitare insieme e non condividono niente. La figlia non dice, la madre non sa cosa fare. Fragili entrambe, l’adulta e la ragazza.

A turbare Lucia non c’è solo il presente e il futuro di Amanda. C’è anche suo padre, Rocco, che la assilla con la questione dell’eredità, richiamandola a un passato che ha cercato di dimenticare. Rocco è un anziano contadino, legatissimo al luogo in cui è nato, ai suoi campi. È vedovo e l’unica figlia si è da tempo trasferita in paese, ha preso una laurea, aperto uno studio di fisioterapia, ha frapposto una distanza con le sue origini – ma non troppa, non del tutto. Rocco ha fretta di donare a Lucia un terreno in montagna, nella zona chiamata Dente del Lupo, come l’omonimo spuntone di roccia che lo sovrasta. Su questo pascolo di proprietà di Rocco, trent’anni prima il suo migliore amico, Osvaldo, aveva realizzato un campeggio per turisti, con tanto di piscina. Un paio di estati dopo, nel bosco che circonda lo spiazzo destinato alle tende avviene una tragedia terribile e il luogo viene abbandonato. Ora tocca alla figlia occuparsene, che lo voglia o meno e nonostante i ricordi dolorosi. Qualcosa va fatto, perché la vegetazione si è ripresa gran parte del campeggio e la piscina rappresenta un pericolo per gli animali, che entrano dalla staccionata divelta e vi cadono dentro. È dunque arrivato il momento di fare i conti con quell’evento che ha sconvolto l’intera comunità e toccato direttamente Lucia; tra le vittime c’era infatti la sua amica Doralice, la figlia di Osvaldo. Per le due ragazze, quel giorno fatidico ha posto fine di colpo alla giovinezza, alla spensieratezza, all’ingenuità e alla fiducia. Allora avevano proprio l’età che ha adesso Amanda. E anche allora Lucia non ha trovato il modo di stare accanto a Doralice. Si è chiusa nel suo senso di colpa, perché non era con lei, come avrebbe dovuto, e ha sperimentato lo stesso spaesamento che ora è di sua figlia di fronte a un fatto la cui brutalità toglie senso al vivere.

La scrittura di Donatella Di Pietrantonio è espressiva, cesellata. Nessuna parola è di troppo, tutte lavorano attorno ai misteri al centro del romanzo: l’introversione di Amanda, di cui scopriamo le cause scatenanti, non quelle profonde, che restano inattingibili; il malessere di Lucia; il dramma che ha segnato la giovinezza sua e dell’amica e cambiato la percezione del luogo in cui abitavano e di loro stesse. Ritroviamo qui il nitore della prosa che abbiamo già apprezzato ne L’Arminuta e in Borgo Sud, la capacità di fare emergere le fragilità dei personaggi, di scavare nelle loro anime, ma solo fin dove si può, accettando che resti un quid inspiegabile nei nostri comportamenti.

Interessante è anche il modo in cui l’autrice tematizza la natura. Bellissima e aspra, può essere un luogo in cui si smarrisce la propria umanità, confinandosi nel puro istinto, oppure si rinasce, deponendo i pesi psicologici. È una natura che può nutrire o affamare, dare riparo oppure minacciare, che si offre fertile, ma sa anche inaridire le persone, costringendole a un lavoro duro che non lascia spazio ai sentimenti e alle parole. Questa natura che sta dentro e fuori di noi va rispettata e accudita, affinché non resti irrazionalità cieca. 

Pur senza proporre facili riconciliazioni, la visione che emerge è tutt’altro che pessimistica: le crepe dell’anima possono essere risanate, come è avvenuto con le lesioni nella basilica dell’Aquila colpita dal terremoto: “Una mancanza orizzontale attraversa un affresco proprio ai piedi del Cristo crocifisso, ma è riempita di stucco. La differenza di colore è netta, eppure non dà fastidio. Significa che lì c’era una ferita ed è stata curata”.

Francesca

Segnalibro