Elizabeth Strout, Lucy davanti al mare”, Einaudi (2024)

 

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Come già nei precedenti romanzi che vedono protagonista Lucy Barton (Mi chiamo Lucy Barton, Tutto è possibile, Oh William!), anche in questo quarto episodio troviamo un racconto in prima persona e uno stile fresco, diretto e colloquiale. E ritroviamo anche un modo unico di esprimere stati d’animo, emozioni, relazioni, comprensioni improvvise e folgoranti riguardo se stessi, gli altri e la società. La prosa di Strout è di una semplicità luminosa. Aderisce al vissuto, racconta la realtà a partire dalle percezioni di Lucy, ma non si limita a riprodurle. Tra le sue mani, la vita quotidiana torna a risplendere in tutta la sua ricchezza e complessità, ogni vicenda è riempita di senso e i personaggi, non importa se di primo o secondo piano, appaiono dotati di spessore e profondità.

Il romanzo è la continuazione naturale di Oh William!, che viene brevemente riassunto nelle righe iniziali, offrendo le coordinate necessarie anche a chi non ha letto o non ricorda i fatti antecedenti. Adesso siamo nel marzo del 2020. Alle prime avvisaglie della pandemia di Covid negli Stati Uniti, William convince Lucy a lasciare in fretta e furia New York e a trasferirsi con lui in una casa che ha affittato nel Maine. William è uno scienziato ed è stato il primo marito di Lucy, insieme hanno avuto due figlie ormai adulte e sposate, e, nonostante i molti tradimenti di lui, gli ex-coniugi hanno mantenuto un rapporto cordiale che è andato rinserrandosi negli ultimi tempi, quando, per motivi diversi, i loro successivi matrimoni sono terminati. Lucy non capisce l’allarme di William, tuttavia lo segue in un altro Stato e accetta di condividere un’abitazione già ammobiliata sulla costa oceanica, circondata da nient’altro che aria, cielo e acqua. Fa freddo, i colori sono lividi, la casa è isolata e deprimente e Lucy è a disagio, spaesata, sopraffatta dal senso di solitudine e dalle difficoltà di adattarsi di nuovo a William; vorrebbe tornare nei luoghi che sente suoi, a cominciare dall’appartamento dove ha vissuto con il secondo, amatissimo marito, di cui è vedova da poco più di un anno. Le basteranno però pochi giorni per afferrare la gravità della situazione; le notizie che arrivano da New York sono sconvolgenti: gli ospedali sovraccarichi, i numerosissimi morti, la chiusura totale di ogni spazio pubblico, le rigide misure di contenimento. Tutto è così sconcertante da sembrarle al contempo vero e irreale. Insieme alla tristezza e alla preoccupazione, si fa però strada il sollievo di essere al sicuro. Anche con William la confidenza man mano si rinsalda. Malgrado i suoi difetti, lui è rassicurante e generoso. Si prende cura di Lucy, aiutandola a sciogliere i sovraccarichi emotivi, gli ingorghi dell’anima. Intanto si getta con entusiasmo in nuove occupazioni e si avvicina a parenti con cui non aveva mai avuto contatti; dal canto suo, Lucy stringe alcuni legami, a cominciare da quello con Bob, il personaggio di un altro bel romanzo di Strout, I ragazzi Burgess. Queste due figure nate dalla stessa fantasia e che già altrove si erano sfiorate, qui scoprono di essere in sintonia. Le unisce la mitezza, l’attitudine empatica, la sofferenza che hanno attraversato e che si riverbera nel presente, popolando di ombre la loro interiorità.

Molte cose avvengono durante l’anno in cui si svolge il racconto, a dispetto dell’immobilità a cui il virus costringe tutti, e molte sono le relazioni che si allacciano nonostante il distanziamento sociale. Importanti cambiamenti investono i personaggi, a cominciare dalla stessa Lucy. Mentre le stagioni si susseguono, accendendo la natura di colori diversi, piccole e improvvise epifanie rendono intellegibili i comportamenti propri e altrui. Lucy è una scrittrice e sa registrare i più minuti cambiamenti dei suoi stati d’animo, ma sa anche uscire da sé per mettersi nei panni degli altri; è questo potere di immedesimazione a consentirle di inventare personaggi che toccano l’animo dei suoi numerosi lettori. Oltre a cogliere ciò che avviene dentro di lei e che determina le sue azioni e reazioni, percepisce la fragilità e la solitudine degli altri, il malessere e il bisogno di rivalsa, l’insofferenza e l’infelicità. Partendo dalle sue esperienze, spesso condensate in ricordi puntuali (l’elemento aneddotico del romanzo), Lucy è in grado di comprendere anche chi è ideologicamente molto distante da lei, in questa America contemporanea sempre più divisa sul piano sociale e politico. Questa comprensione non sfocia nella giustificazione degli atteggiamenti tracotanti o negazionisti, ma neppure nel pessimismo, perché Lucy si rende conto che ciò che porta alcuni verso il cinismo, la piccineria o la violenza può anche generare compassione e generosità.

Come ho già detto in altre segnalazioni dei libri di Strout, mi colpisce l’abilità nel coniugare leggerezza e profondità, nel far convivere l’osservazione attenta del mondo circostante e una narrazione centrata su un solo Io. In poche righe e semplici immagini si condensano intuizioni profonde riguardo ai singoli e al contesto sociale, individuandone le difficoltà e le tensioni. Tuttavia, non viene mai meno un tenue ottimismo, nutrito dalla visione della sollecitudine reciproca, dei legami che uniscono gli individui, anche se i loro mondi non possono mai coincidere del tutto. Ogni cambiamento genera nuove possibilità e ovunque si trova apertura e luce.

Francesca

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