Elizabeth Strout, “Oh William!”, Einaudi (2022)

ACQUISTA

È notevole la maniera con cui la scrittrice americana Strout coniuga la profondità della sua lettura psicologica e la leggerezza della scrittura. L’analisi delle relazioni affettive può contare sulla dialettica continua tra interiorità e realtà esterna, introspezione e osservazione degli altri: l’una confluisce nell’altra e ne riemerge arricchita. Anche per questo la sua indagine sugli individui sa ampliarsi e cogliere la desolazione materiale e morale che colpisce una parte degli Stati Uniti.

Come già nei due precedenti romanzi dedicati a Lucy Barton (Mi chiamo Lucy Barton e Tutto è possibile), anche in questo terzo episodio troviamo un racconto in prima persona e uno stile fresco e colloquiale. La narrazione procede fluida, spontanea come una confessione. Il ritmo è scandito da piccole pause e sospensioni, date per esempio dalle reticenze di Lucy di fronte a qualcosa di troppo doloroso da dire (“per adesso non so aggiungere altro”) oppure dal presentarsi improvviso di un ricordo o, ancora, dalla necessità di fare una precisazione che introduce una lieve deviazione. Quanto la scrittura sia immediata ma al contempo eloquente lo rivela già il titolo, Oh William!, l’esclamazione che spesso Lucy indirizza al suo primo marito, da cui è separata da tempo ma con cui è rimasta in ottimi rapporti. Nella sua estrema semplicità, questa espressione contiene un ventaglio di stati d’animo, dall’irritazione alla tenerezza, dalla consonanza al fastidio, dal compatimento al sollievo. Questi sentimenti trascolorano l’uno nell’altro, poi tornano a ripresentarsi netti e di nuovo si sovrappongono e si fondono nell’animo della protagonista.

Il romanzo si apre con Lucy, scrittrice affermata ormai sopra la sessantina, rimasta da poco vedova del suo adorato secondo marito. Sebbene il dolore per la scomparsa affiori di continuo, non è lui il centro del suo racconto, bensì William, l’uomo con cui è stata sposata per 20 anni e con cui ha avuto due figlie. Stemperata la rabbia per i molti tradimenti subiti e superati gli sconvolgimenti del divorzio, Lucy ci racconta di lui, di com’era e di com’è ora, ricorda il loro matrimonio e ci mostra quanto il loro legame, nonostante tutto, sia rimasto fortissimo.

A 71 anni William è al suo terzo matrimonio, questa volta con una donna molto più giovane che lo ha reso di nuovo padre, e si dedica quotidianamente alle sue ricerche in microbiologia, anche se sente che la carriera è giunta alla fine. Alto, elegante, capelli e baffi folti, sguardo penetrante, William è un uomo che il tempo non ha offeso, ma che conosce bene il dolore. E Lucy, che è nata e cresciuta in un contesto familiare di estrema povertà ed estremo isolamento, di violenza e trascuratezza, sa quanto la sofferenza faccia sentire soli, “è come scivolare giù per la facciata di un lunghissimo palazzo di vetro mentre nessuno ti vede”. Ma l’intimità, la confidenza e la comprensione che un tempo ha unito Lucy e William non sono venute meno neppure dopo il divorzio e i nuovi legami. Così è a Lucy che William si rivolge quando il terrore e la tristezza lo assalgono; è lei che vuole al suo fianco quando decide di tornare nei luoghi d’origine della madre per affrontare il mistero che circonda la storia della sua famiglia. Insieme attraversano il Maine, percorrendo in macchina le campagne abbandonate e lo squallore di paesi deserti. In questi pochi giorni in uno scenario deprimente, così diverso da quello urbano di New York dove i due abitano, molti nodi vengono sciolti, altri rimangono serrati.

Un po’ alla volta emergono le personalità dei due ex coniugi e il loro rapporto passato e presente. Il racconto che Lucy fa della loro relazione, reso più acuto e sincero dalla maggiore maturità e dalla distanza emotiva, alterna dialoghi e silenzi, momenti di imbarazzo e altri di complicità, risate e lacrime, ricordi e accuse, molta tenerezza e qualche lampo di comprensione che riesce, finalmente, a illuminare tutto. Grazie alla voce limpida di Lucy, il romanzo scandaglia con rara perspicacia le relazioni familiari e la vita coniugale, cogliendone tutta la gamma emotiva. Lo sguardo di Lucy non è rivolto solo a William, ma innanzitutto a sé ed è uno sguardo onesto, che non si nasconde niente e a volte sa stupirsi di ciò che vede. Lucy, questo bel personaggio a cui è impossibile non affezionarsi, svela le debolezze di William e le sue, senza indulgere nel vittimismo ma riconoscendo il bagaglio che ci portiamo dal passato, anche se cerchiamo di rimuoverlo e tenerlo segreto, proprio come ha fatto la madre di William, con la sua apparenza di felicità contornata da ombre profonde, o come ha fatto a lungo lo stesso William, prima di decidersi ad affrontare le sue fragilità. Per non parlare di Lucy, che, per quanto famosa e amata, convive con un costante senso di inadeguatezza, con la sensazione di essere invisibile, con la paura e l’impressione di non avere via d’uscita, tutti retaggi di un’infanzia drammatica, che l’ha resa vulnerabile ma anche predisposta a capire gli altri, a essere riconoscente, ad amare.

Segnalibro