Emanuele Trevi, “La casa del mago”, Ponte alle Grazie (2023)

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Il nuovo libro di Trevi è una felice combinazione tra un romanzo, un saggio di argomento psicologico e un’affettuosa biografia dedicata al padre, amalgamati da una prosa lavorata con sapienza, resa fluida e smagliante. Una prosa che ha fatto tesoro dell’insegnamento paterno sull’arte di lucidare i ciottoli, per dar loro valore e splendore; proprio come questi comuni sassi, le parole e le frasi “non possiedono nessuna qualità evidente, non sono né brutte né belle, si confondono tra milioni di altre ugualmente opache e usurate. L’inerzia delle parole è la mancanza di significato. Tutto sta nello sfregarle, e poi sfregarle ancora, e ancora”.

Al centro di queste pagine al contempo divertenti e serie, leggere e profonde, c’è il padre dell’autore, Mario Trevi, il mago, stimatissimo psicanalista junghiano e bravissimo terapeuta. Una persona dalle grandi qualità, un vero signore, che però viveva ammantato da un velo di mistero imperscrutabile. “Lo sai com’è fatto” era la formula usata dalla madre di Emanuele per riferirsi a quest’uomo enigmatico. Una formula che pretendeva di spiegare e invece non spiegava niente, limitandosi a prendere atto dell’impenetrabilità di Mario, dell’impossibilità di capire come era fatto. Si muoveva nel mondo come “un’anima straniera”, dice Emanuele, e ce ne dà un esempio esilarante quando lo descrive al volante. Tuttavia, la sua non era semplice distrazione, bensì una condizione più radicale: si chiudeva nel “retrobottega” della sua mente, si ritirava in se stesso, rendendosi inaccessibile, “bersaglio che la balistica del mondo non riusciva mai a centrare”.

Dopo la sua morte, il figlio si dedica a offrirne un ritratto, a cogliere il nucleo della sua personalità insieme autocratica e fortemente empatica, come dimostrato dal lavoro che svolgeva con particolare bravura. Poiché stanarlo dal suo “retrobottega” è impossibile, gli gira intorno, per così dire: si installa nella casa in cui il padre abitava ed esercitava e si guarda intorno. Questi locali sembrano conservare le ombre delle confessioni e dei “segreti delicatamente estratti dalle sabbie mobili della Rimozione”, come una sorta di “braciere psichico non ancora del tutto spento”; per questo Trevi piazza la sua camera da letto nel luogo più neutrale, ossia la sala d’attesa. Dunque il figlio del mago si installa nella casa del mago, ma sa di non esserne il vero proprietario; infatti, nemmeno apre gli scatoloni del trasloco e rimane catturato da un senso di irrealtà, in balia di tre strane, meravigliose signore.

Tra gli oggetti significativi presenti nei locali, ciascuno portatore di un significato speciale, vi è un’enorme scrivania, dotata di “un numero sconcertante di cassetti, sportelli, ripostigli”, anfratti misteriosi come la vita interiore di Mario. Il figlio non la usa mai. Si limita a riporvi le tracce lasciate nottetempo dalla Visitatrice, l’entità invisibile che viene silenziosamente a dimostrargli che lui non è l’unico padrone di questa casa. Proprio come noi non siamo gli unici padroni della nostra mente e del nostro agire: la vita cosciente e autocosciente è solo una delle forze che operano nel nostro spazio psichico. Trevi, che occupa il nido di uno psicanalista junghiano, ne adotta la visione; la fa sua soprattutto tramite la lettura delle opere dello psicologo svizzero, in particolare Simboli della trasformazione, il libro con cui il padre si era a lungo confrontato. Jung ha defenestrato l’Io cosciente dal suo ruolo e Trevi vive l’esperienza di essere sballottato tra poteri diversi. Nel suo appartamento si intrufolano infatti liberamente la Degenerata, Paradisa e la Visitatrice. La Degenerata, la divertente domestica peruviana che va e viene come vuole, senza fare ciò per cui è pagata e senza che la volontà razionale di Trevi sappia opporsi, la bella Paradisa, placida, “ronzante di benessere” e “contagiosa soddisfazione”, e l’inspiegabile Visitatrice gli attestano che lui non è il solo abitante della sua casa. Ma queste forze non sono oscure, spaventose, ancestrali, come invece riteneva Jung. Proprio questo sembra l’insegnamento principale del padre: “non necessariamente ciò che è oscuro è malvagio, così come non tutto ciò che splende nella luce è buono”.

Dalla natura gratuita dell’amore alla nostra possibilità di abitare nel tempo presente, alla differenza fra le immagini della mente umana e le terapie offerte da Freud e Jung, moltissimi sono gli spunti di riflessione in queste pagine, che raccontano il padre seguendo un percorso pieno di anse e di curve, divagazioni apparenti che riportano immancabilmente alla persona speciale e profonda, gentile e riflessiva che era Mario. Ma intanto ci è stato dato modo di capire qualcosa in più anche di noi stessi e della nostra esistenza.

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