Eric-Emmanuel Schmitt, “La vendetta del perdono”, Edizioni e/o (2018)

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Schmitt è autore versatile e prolifico, a cui si devono racconti, romanzi e opere teatrali animati da una verve e da una dialettica che li rendono inconfondibili.

La sua piu recente opera tradotta in italiano comprende quattro racconti, altrettante messe in scena di un medesimo tema: il perdono. Molti lettori non amano i racconti per la loro frammentarietà, per il fatto che in essi non si dispiega una vicenda in modo ricco e compiuto, ma, al di là dell’indiscussa abilità di Schmitt in questo genere, le pagine di questo libro costituiscono un corpus davvero unitario.

Il perdono viene di solito considerato un atto gratuito, forse l’atto gratuito per eccellenza, che, grazie a un profondo lavoro sulle pulsioni più aggressive, è in grado di porre fine al conflitto e riportare la pace. Sembra insomma la vittoria della bontà.

Ma Schmitt, che nei suoi testi ama indagare sulla complessità filosofica e psicologica delle relazioni e dei sentimenti umani, ci invita a una riflessione più raffinata, che sappia sviscerare i risvolti oscuri e inaspettati del gesto del perdono.

E così, leggendo la vita de Le sorelle Barbarin, il primo dei racconti, scopriamo che il perdono ha anche la capacità di fomentare odio e risentimento in chi viene perdonato e in questo modo inchiodato per sempre nella parte del cattivo e del debitore.

Oppure ci rendiamo conto fino a che punto il perdono può aprire alla rivelazione dell’assoluta inferiorità morale di chi ha commesso la colpa, come nel secondo racconto, Madamina Butterfly, dove il protagonista, nonostante sia portato all’autoindulgenza, è costretto a rendersi conto che a nulla valgono la sua superiorità intellettuale, sociale ed economica rispetto alla purezza della donna che lui ha sedotto, abbandonato e poi privato del suo bene più prezioso e che pure ha una capacità di amare per lui irraggiungibile.

O, ancora, scopriamo che il perdono ha la capacità di trasformarsi in una sottile, crudelissima forma di vendetta, come nel terzo racconto, quello che dà il titolo al libro ed è a mio avviso il più riuscito. Perché perdonare può essere l’atto con cui trasformiamo il carnefice in una vittima: risvegliando la sua coscienza e la sua umanità, lo scagliamo nella prigione del senso di colpa, prigione ben più dura di quella fatta di sbarre e guardie.

E poi ancora, nel quarto racconto, il più tenero e poetico, il perdono rende nuovamente la vittima protagonista della sua vita.

Insomma, volontariamente o involontariamente, perdonare rende debole il forte e forte il debole e, ben lungi dal rappresentare la fine delle tensioni, può essere addirittura l’inizio di un nuovo dramma.

E’ questo il compito che Schmitt si è prefisso: accompagnarci nella scoperta che l’esito delle nostre azioni non sempre è quello che ci aspetteremmo, aprirci a una verità inattesa e spiazzante.

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