Guadalupe Nettel, “Il corpo in cui sono nata”, La Nuova Frontiera (2022)

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Già pubblicato alcuni anni fa da Einaudi e ora riproposto da un’altra casa editrice, ma sempre nella traduzione di Federica Niola, questo romanzo della scrittrice messicana Guadalupe Nettel convince a pieno. È facile scivolare all’interno del libro e farsi catturare dalle parole con cui la narratrice, una donna adulta, presumibilmente la stessa Nettel, racconta la propria infanzia e adolescenza. La narrazione in prima persona è semplice e diretta, misurata e sicura e l’assenza di enfasi e di eccessiva drammaticità, di autocommiserazione o attribuzione di colpe rende netti e forti i vissuti della protagonista, nata con un difetto, una macchia sull’iride che compromette la vista da un occhio e le impone un arduo percorso di accettazione di sé.

Il romanzo ha la forma di un lungo monologo destinato a un interlocutore che resta sempre in silenzio, la dottoressa Sazlavski, che noi supponiamo essere una psicoanalista. Rivolgendosi a questa figura discreta, ma in realtà prefigurando il romanzo a cui intende lavorare, la voce narrante ripercorre la sua vita fino ai 17 anni, un “amalgama complesso” non solo di eventi e relazioni, ma anche “di immagini, di ricordi e di emozioni”, consapevole che “anche se a forza di volontà li teniamo a bada, acquattati in un luogo tenebroso della memoria, quando meno ce lo aspettiamo ci saltano in faccia come gatti inferociti”. La narratrice riesce a fare i conti con il dolore e la frustrazione che ha sperimentato, ma sa anche restituire l’innocenza dell’infanzia con tocco lieve.

Cresciuta nei primi anni Settanta in un quartiere periferico di Città del Messico, la piccola protagonista è costretta a portare a lungo un cerotto sull’occhio sano per stimolare l’altro; un cerotto che detesta e che vive come un’oppressione e un’ingiustizia, e che pure, incredibilmente, non prova mai a levarsi. È con questa visione poco nitida, con questa percezione del mondo come luogo nebuloso e poco ospitale, con questa sostanziale rassegnazione riguardo al proprio corpo che la bambina muove i primi passi. La sua infanzia trascorre solitaria, evitata dai coetanei, cercando anfratti in cui rifugiarsi, tra le fronde di un albero, nelle scale di servizio del palazzo, nella lettura o nella scrittura. Stare ai margini e sentirsi diversa diventeranno i suoi tratti distintivi. L’immagine che ha di sé finisce presto per saldarsi con l’appellativo che la madre usa per correggere la sua postura curva e con la testa incassata: “scarafaggio”, “scarafaggino”. Non a caso verrà tormentata per anni dall’apparizione di insetti visibili solo a lei, mentre il precoce incontro con La metamorfosi di Kafka conferisce finalmente chiarezza alla sua permanente sensazione di eccentricità rispetto agli altri e all’ambiente: “in nessun punto della narrazione si dice chiaramente quale insetto fosse Gregor Samsa, ma io capii quasi subito che si trattava di uno scarafaggio. Lui si era trasformato, mentre io lo ero per decreto materno, se non dalla nascita”.

Nonostante i genitori professino uno stile di vita alternativo, secondo cui bisogna sempre dire la verità ai bambini, in realtà sulle cose fondamentali mantengono un silenzio che confonde e inquieta la ragazzina. Senza ricevere spiegazioni da parte degli adulti, lei e il fratello minore affrontano sconvolgimenti a cui non possono ribellarsi e che non capiscono: dapprima la separazione dei genitori, poi l’allontanamento repentino e misterioso del padre, un uomo allegro e molto amato, in seguito la partenza della madre, che va a vivere in Francia e affida i figli a una nonna tradizionalista, severa e poco affettuosa, che elogia il nipotino e critica continuamente la nipote per il suo modo di essere e di fare. Quando le cose sembrano aver raggiunto un certo equilibrio, la madre decide di prendere i bambini con sé in Francia. In questa nuova realtà, la narratrice si trova ancora più isolata, sempre segnata dal fardello di una estraneità che le appartiene così intimamente da farla sentire ai margini anche quando è in un contesto dove tutti sono marginali, come nel quartiere disagiato e povero in cui ora abita.

Scarsa autostima, carenza di amor proprio, ritrosia, una certa vergogna di sé, un senso acuto della propria anomalia e inadeguatezza sociale, amicizie rare e di breve durata, segreti inconfessabili, ma anche incontri fondamentali con libri o persone che la aiutano a crescere, aprirsi e accettarsi e, soprattutto una grande adattabilità, qualità propria a quegli animaletti con cui si identifica: è così che la protagonista attraversa i primi 17 anni di vita. Solo da adolescente il suo essere diversa diventerà un elemento positivo della sua identità, assunto insieme alla consapevolezza che adattarsi significa resistere alla sofferenza e riuscire a superarla.

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