Gunnar Gunnarsson, “Il pastore d’Islanda”, Iperborea (2016)

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Ogni anno, la prima domenica di Avvento, Benedikt intraprende un viaggio tra le montagne e gli altopiani della sua regione per recuperare le pecore disperse, quelle sfuggite ai grandi raduni autunnali delle greggi. Ogni dicembre, ormai da 27 anni, lascia la sua casa e si mette in cammino, portando con sé solo lo stretto indispensabile e avventurandosi per giorni e giorni nel freddo dell’inverno islandese. Ad aiutarlo in questa impresa ci sono Roccia, il suo montone, prudente, affidabile e saldo come il suo nome, e Leo, il suo fidatissimo cane, curioso e gioioso, assetato di vita. Affiancato da loro, a cui lo legano affetto e rispetto, Benedikt attraversa dapprima le fattorie disperse, poi si avvia sempre più su e sempre più lontano, sfidando il vento gelido e le bufere di neve nel pieno dell’inverno, quando il buio sovrasta la luce e l’aria si fa tagliente. Affronta lo scatenarsi delle forze della natura e la desolazione del nulla, la fatica e la scarsità di provviste con la sola compagnia dei suoi animali e con le sole armi dell’umiltà e della determinazione.

Scritto negli anni Trenta, questo romanzo breve si presta a molteplici letture. Ci racconta il confronto diretto e puro con gli elementi naturali che è anche un confronto con i propri limiti e con le proprie angosce, ci descrive un mondo incontaminato, bellissimo e aspro, in cui le cose perdono i loro contorni definiti, ci parla di rapporti umani scarni ed essenziali ma autentici. Ma quello che a me ha colpito di più è il suo contenuto morale. Benedikt è figlio di una realtà ancora completamente rurale, non un filosofo. Tuttavia, è un uomo profondamente spirituale che si pone grandi domande e sente il bisogno di cogliere il nocciolo più profondo del nostro essere al mondo. 

A discapito di ogni buon senso, Benedikt si assume questo vero e proprio pellegrinaggio annuale per riportare alcune bestie, che non sono neppure sue, sane e salve ai loro ovili ed evitare loro una morte certa. Lo fa perché per lui non esiste creatura così modesta da non meritare di essere salvata e lui, uomo modesto e semplice, che di pecore non ne possiede, si fa carico di questi animali, a costo di mettere a repentaglio ogni volta la sua stessa vita. È questo il suo servizio, il compito che rende sacra la sua esistenza e le dà un senso.

È forte l’invito a sentirsi responsabili per gli altri. Avere cura di ogni essere vivente, essere utile a tutto il creato, mettersi al servizio. Nella sua visione, solo questo ci salva dall’insignificanza, ci colloca nell’ordine delle cose e ci rende indispensabili. Nel contempo, quest’uomo ci mostra, non ci insegna, ma ci mostra, con il suo stesso calarsi in un’esperienza così estrema e particolare, come affontare le avversità: anche quando il mondo non ha alcuna considerazione per i nostri desideri, noi non possiamo che andare avanti, come quando siamo avvolti dalla tormenta e senza un riparo e per non soccombere dobbiamo non cedere allo sconforto, bensì perseverare, tenendo sempre ben presente la nostra missione.

Mi sembra che una narrazione semplice ma ricca di temi etici e spirituali, sorretta da uno stile insieme realistico e lirico, sia perfetta per questo periodo natalizio.

 

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