Jhumpa Lahiri, “Dove mi trovo”, Guanda, (2018)

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La succinta biografia riportata nel risvolto di copertina ci ricorda che la scrittrice Jhumpa Lahiri è nata a Londra da genitori bengalesi e si è poi trasferita negli Stati Uniti. E’ autrice di romanzi e racconti belli e premiati, scritti in inglese. Qualche anno fa, insieme alla famiglia, si trasferisce a Roma, dove si dedica con impegno all’apprendimento della lingua italiana, che viene dunque ad affiancarsi al bengalese e all’inglese. Già nel 2015 esce il suo primo libro scritto direttamente in italiano, In altre parole, sempre per Guanda. 

Da poche settimane è in libreria anche la seconda opera scritta in italiano, quella di cui voglio parlare ora, Dove mi trovo.

La prima osservazione deve per forza partire da qui: dalla padronanza che Lahiri ha dell’italiano, dalla precisione, pulizia, fluidità della scrittura. Grazie a questa maestria, la lettura non si inceppa mai, anzi, riserva molte piccole sorprese ed emozioni.

Dove mi trovo è un romanzo più semplice, più breve e più lineare di altri dell’autrice, di certo lo è dell’ultimo che avevo letto io, La moglie, un libro di ampio respiro, ricchissimo e profondo, che mi aveva molto colpito.

In queste pagine, invece, si dipanano una serie di episodi, in ciascuno dei quali viene narrato un incontro, un evento o un’esperienza. Nell’insieme, questi brevi capitoli vanno a comporre un unico quadro, un vero e proprio romanzo dove una donna, l’io narrante, si muove in uno stesso spazio, la non meglio specificata «città».

Molte sono le figure ricorrenti che tessono una trama di rimandi tra un capitolo e l’altro: la madre, che sta invecchiando in solitudine, le amiche e gli amici con cui i contatti sono sporadici ma costanti, i colleghi che non diventano mai davvero prossimi, qualche amante e poi un «lui» con cui la donna vive un legame che ben esprime la tonalità emotiva di tutto il libro, ossia ne è affascinata, ma contemporaneamente non può e non vuole accostarsi di più. Al centro di tutto, di ogni vissuto e di ogni percezione, di ogni osservazione e di ogni sentimento, c’è lei, l’io femminile che racconta. Nessuno ha un nome, e d’altronde non se ne sente il bisogno, anche se siamo in un romanzo che esplora il tema dell’identità.

L’identità inquieta è uno dei temi costanti della Lahiri, che anche qui racconta di una persona divisa tra il bisogno di radicamento e il senso di estraneità, tra il desiderio di creare un legame forte con luoghi e persone e la paura di farlo : «Non ritorno mai nello stesso posto, preferisco non creare legami, dipendenze … mi sento estranea alla mia famiglia di orgine, e alla mia giovinezza. Una distanza tanto voluta quanto sconfortante». Il mondo appare un insieme di esistenze separate che condividono lo stesso spazio pur senza incrociarsi. Eppure l’io non è mai davvero esclusivamente solo; molti sono i gesti e i contatti che lo uniscono agli altri, con legami più o meno flebili, da ricreare di volta in volta.

Questa narrazione in prima persona ruota quindi attorno al tema «dove mi trovo»: dove mi trovo nello spazio (la città in cui la donna vive non è mai un mero sfondo, ma una presenza concreta con le sue strade, i parchi, gli edifici, le statue, il variare del clima e delle stagioni), dove mi trovo nello scorrere dell’esistenza, in bilico tra ripiegamento su di me e apertura all’altro, tra bisogno di immobilità e spinta al cambiamento, tra desiderio di silenzio e necessità di rumore. C’è malinconia nel romanzo, ma anche ampi sprazzi di luce e di calore: «Penso: mi aspetta un nuovo cielo, per quanto sempre collegato a questo. Sarà una vita per certi versi splendida. (…). Non dovrò cenare nemmeno una sera senza qualcuno. Avrei potuto rinunciare, sarei potuta restare inchiodata qui. Ma c’è qualcosa che mi spinge oltre la corazza della mia vita, così come il cane mi tirava lungo il sentiero della Villa».

E tra la citazione di Svevo in esergo e i bellissimi ultimi due capitoli, scopriamo la vastità del mondo interiore di una donna che teme e desidera e che osa conquistarsi più vita.

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