Juan Gabriel Vásquez, “Il rumore delle cose che cadono”, Feltrinelli (2020)

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La storia recente della Colombia è spesso al centro dell’opera del pluripremiato scrittore Vásquez, uno dei nomi di punta dell’odierna letteratura sudamericana. In questo romanzo (già apparso in italiano per un’altra casa editrice nel 2012) la sua prosa sapiente, intensa e realistica ripercorre l’esperienza di chi ha vissuto gli anni in cui spadroneggiavano i narcotrafficanti. Il trauma e la paura paralizzante di un’intera generazione cresciuta con la violenza senza quartiere, gli attentati quotidiani, gli agguati, le esplosioni, la guerra tra il governo e i cartelli della droga traspare nel racconto di Antonio Yammara, protagonista e io narrante. La sua voce rievoca vicende che appartengono a qualche decennio fa e questa distanza temporale, per quanto breve, permette di considerarle con un atteggiamento più ponderato. In primo luogo, esse diventano un’occasione per riflettere sul caso: ciò che ci capita e ci travolge può talvolta sembrare frutto di una fatalità, ma noi possiamo accettarlo e superarlo solo se vi troviamo una logica, un senso. L’urgenza di capire impone di scavare nel passato e di cercare la ragione degli eventi a partire dalla traccia che hanno lasciato (il rumore delle cose che cadono, appunto), anche quando sembrano prodotti da semplici coincidenze. Le nostre esistenze sono insomma in larga parte plasmate dalle scelte e dai comportamenti di persone spesso lontane e sconosciute, così come le nostre azioni si ripercuotono sui destini altrui.

Bella la scena di apertura: l’opinione pubblica si interroga sulla sorte degli ippopotami che erano ospiti del parco zoologico voluto da Pablo Escobar per i bambini della zona. A qualche anno dalla sua morte, tutto è in sfacelo; la sua tenuta favolosa è stata confiscata dallo Stato e poi abbandonata a se stessa. E allora che ne sarà di questi ippopotami di cui nessuno si occupa più e che vagano in cerca di cibo danneggiando colture e allevamenti? Non hanno colpe, vogliono solo sopravvivere, ma sono ingombranti, pericolosi e allo sbando.

Il racconto di Antonio parte dal 1996, quando lui era un giovane professore universitario di diritto a Bogotà. Il suo tempo allora si divideva tra l’insegnamento e i tavoli di biliardo di un locale in cui amava rifugiarsi. È qui che incontra Ricardo Laverde, un uomo schivo e precocemente invecchiato; si sa che ha trascorso un lungo periodo in prigione, ma non se ne conosce il motivo. Tra i due nasce qualcosa che assomiglia all’amicizia: qualche chiacchiera e qualche confidenza, la rivelazione del grande amore di Ricardo per la moglie, una statunitense ormai rientrata in patria, che però ha appena acconsentito a tornare a Bogotà per incontrarlo di nuovo. Lui spera di ricominciare, invece un incidente cambia ogni cosa. Poco dopo, lo stesso Ricardo viene ucciso in un agguato e Antonio, che gli camminava accanto, rimane gravemente ferito. Mentre il suo corpo pian piano guarisce, i segni nella psiche non si rimarginano. Anche se intanto diventa padre, se ha una compagna innamorata e comprensiva, non sa riprendere possesso della sua vita. Antonio è intrappolato nella paura, assillato dalla preoccupazione per la sicurezza della sua famiglia, a cui però non dedica nessun’altra attenzione. Soprattutto è ossessionato dal bisogno di comprendere perché Ricardo è morto e lui ha ricevuto una pallottola. Sa di essere stato colpito per sbaglio, ma questo fatto apparentemente casuale sta determinando il suo presente e il suo futuro e deve venirne a capo. Indaga come può; con i pochi mezzi a disposizione, risale lungo la catena di eventi sfociata nell’attentato a Ricardo e la scopre strettamente intrecciata alla storia della Colombia a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando inizia l’ascesa dei narcos. È un concorso di fatti in cui lui non è implicato in nessun modo, ma che comunque lo riguarda direttamente. La passione di Antonio e Ricardo per il biliardo rafforza proprio questa idea: sia nel gioco che nelle nostre esistenze si verificano spostamenti dovuti a urti e collisioni che dipendono dalle mosse degli altri giocatori, e tutto ciò che possiamo fare è cercare di arginare i danni e modificare la situazione a nostro vantaggio.

Il romanzo scioglie il mistero a poco a poco, quindi non aggiungo altro. Sottolineo solo un aspetto: Antonio ricostruisce gli eventi grazie alle lettere scritte dalla moglie nordamericana di Ricardo. Lo scivolamento verso la situazione che condizionerà per due decenni l’intera Colombia è quindi ripercorso dalla prospettiva di questa donna arrivata a Bogotà appena maggiorenne, carica di idealismo e di buona volontà, pronta a impegnarsi per sconfiggere la povertà e l’immobilismo. Si chiama Elaine, ma qui la chiamano tutti Elena. La prima di una lunga serie di storpiature.

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