Mariapia Veladiano, “Quel che ci tiene vivi”, Guanda (2023)

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La voce di Mariapia Veladiano è intensa e delicata, mai lacrimevole né troppo dura, capace di scavare nella sofferenza con misura e senza banalizzare, di parlare di solitudine estrema e di condivisione, di voragini affettive e del potere salvifico del legame con gli altri. Protagonista e voce narrante del suo nuovo romanzo è Angeletto, un avvocato specializzato in diritto di famiglia. È bravo in questo lavoro, perché sa farsi valere in tribunale e perorare con le giuste parole le rivendicazioni dei suoi clienti, ma anche per via di ciò che ha vissuto. Ha esperienza diretta di rapporti disfunzionali – e per questo talvolta deve rifiutare dei casi troppo penosi per lui. La sua storia prende forma un dettaglio alla volta, illuminata a sprazzi dall’affiorare involontario dei ricordi. Si ricompone allora la situazione di estremo disamore in cui è nato e cresciuto; disamore tra i suoi genitori, due individui infelici, frustrati, pieni di un astio reciproco che si manifestava in silenzio; e disamore verso di lui. Ignorato tanto dal padre, che nemmeno lo guardava negli occhi, quanto dalla madre, per la quale era un peso. La madre, diventata tale appena adolescente, non si tratteneva dal ripetergli che era stato concepito per errore, che non gli avrebbe fatto da serva e dimostrava assoluta indifferenza non solo ai suoi bisogni, ma alla sua stessa esistenza. Per rendersi tollerabile, il bambino aveva imparato a farsi invisibile; la madre si vantava: “è come non averlo”, e in ciò si esauriva il suo rapporto con il figlio. Insomma, Angeletto è vissuto nell’abbandono, nella solitudine, nella trascuratezza, intrappolato in un mondo anaffettivo, fino a quando una tragedia non ha stravolto la sua vita.

Eppure si è salvato. Segnato, pieno di angoscia, sensi di colpa e di inadeguatezza, con il terrore di essere abbandonato e, in sottofondo, il pensiero della morte come possibile via di fuga dalla morsa del dolore, e tuttavia capace di stare al mondo, amare, lavorare, provare empatia per i suoi clienti gravati da relazioni finite nello sfacelo. A salvarlo è stata Giuditta, la vicina di casa che lo ha preso con sé quando, a otto anni, è rimasto solo. Giuditta lo ha visto quando nessuno lo vedeva e poi ha mosso mari e monti per averlo in affido; lo ha accudito con spirito pratico e gentile, gli è stata amica senza pietismo e gli ha assicurato una presenza costante. A salvarlo, poi, è arrivata Bianca, una psicoanalista a sua volta scampata a un evento tragico di cui lui non vuole sapere nulla. Sebbene Angeletto e Bianca siano agli antipodi, il loro amore è pieno, profondo. Lui è grande e grosso, una corporatura che risponde al bisogno di darsi una consistenza dopo tanta invisibilità, lei è minuta, eterea, credente. Lui fa di tutto per renderla felice, lei mette in pratica una morbida analisi quotidiana. Consapevole dell’importanza delle parole, Bianca lo ascolta, sente i suoi pensieri e accoglie i ricordi che di tanto in tanto scivolano fuori. Colma i suoi vuoti con l’affetto, lo accetta com’è, vedendo in lui non un coacervo di problemi irrisolti, bensì una persona unica, vitale. Quello che gli altri liquidano come “un brolo pieno di erbacce” da estirpare, per lei è “un’oasi di biodiversità”, un terreno ricco e fertile che semmai va trasformato “lasciando tutto quello che c’è di bello”; “il confine tra la sterpaglia e il giardino è la cura. Se c’è la cura è giardino”.

Il rapporto tra Angeletto e il suo passato è rappresentato dal legame che egli ha con la casa dove ha trascorso l’infanzia e che ora è sua. È una palazzina con alcuni appartamenti disabitati e bisognosa di interventi, ma lui la lascia così, dissestata e vuota. Mentre Bianca ha saputo lavorare alla casa della propria famiglia, devastata da un incendio, l’ha resa luminosa e l’ha ristrutturata integrando ciò che andava preservato, Angeletto rientra di tanto in tanto nel suo appartamento solo per ritrovarlo irrimediabilmente uguale. Una parte di sé è ancora lì, inchiodata all’infanzia.

Una sera, durante una di queste incursioni, incontra un ragazzino. Si chiama Salvino, è in giro da solo, al buio, al freddo, dice cose bizzarre e si dilegua con la stessa rapidità con cui si è presentato. Angeletto vi ritrova qualcosa di sé (“Mi pare me, mille volte me”) e torna a cercarlo ogni giorno, consapevole che “ci si salva perché qualcuno ci vede”, anche quando è necessario restare nascosti per poter sopravvivere. La comparsa di Salvino imprime al romanzo una svolta inattesa ma coerente con la dolcezza e la speranza che, a dispetto di tutto, lo percorrono per intero.

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