Marta Sanz, “Piccole donne rosse”, Sellerio (2022)

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Addolorata e arrabbiata per la fine del suo matrimonio con un uomo che si è rivelato molto diverso da come credeva, Paula arriva in piena estate in un paesino dell’altopiano spagnolo per partecipare come volontaria alle ricerche attorno alle fosse comuni in cui, in piena guerra civile, i franchisti gettavano le vittime delle loro esecuzioni sommarie. In queste buche frettolosamente coperte non finivano solo gli avversari politici, ma anche persone che, per vari motivi, apparivano scomode, strane, fastidiose: per le loro idee, i loro modi di vita, i loro beni avidamente invidiati. Insieme a un’altra volontaria e a una squadra di esperti, Paula cerca di dare un nome e un’identità alle ossa che ora, a decenni di distanza, emergono dagli scavi. Raccoglie storie e testimonianze su mariti, mogli, figli, fratelli, vicini e amici scomparsi all’improvviso, esamina fotografie, ricostruisce le vicende di individui uccisi con brutale indifferenza. Il suo lavoro non muove solo la terra, ma anche gli animi, porta alla luce i segreti di chi ha indicato ai falangisti i bersagli da colpire, spesso per motivi biecamente personali, e di chi ha taciuto a lungo per interesse, per paura, per apatia, per desiderio di voltare pagina.

Paula è un’ispettrice del fisco, quindi abituata a far quadrare i conti, ma è anche sensibile e idealista; con la sua caparbietà e la sua camminata particolare dovuta a un problema a una gamba, viene a turbare la quiete del paese e dei suoi pomeriggi assolati, dove le abitudini di sempre convivono con la nuova vocazione turistica. Gli abitanti guardano questa donna bella e zoppa incerti tra curiosità e aperta ostilità, perché nessuno sembra volere davvero che si faccia chiarezza. Non per nulla una mano anonima è intervenuta sul cartello che annuncia l’entrata nel paese, trasformandone il nome da Azafràn, ossia zafferano, in Azufrón, che rimanda alla parola zolfo, con un’allusione al demoniaco che cova sotto l’apparenza pacifica.

Durante la sua permanenza, Paula risiede in una pensione di proprietà della famiglia più ricca della zona. A occuparsi di tutte le incombenze è Analia, instancabile nuora di Jesus Beato, il capostipite che ha compiuto cento anni. Accanto a lei si muovono altri parenti, tra cui David, il figlio di Analia, con cui Paula avvia una relazione. I rapporti all’interno di questo gruppo familiare sono avvolti da ambiguità e misteri, agitati da dinamiche torbide e malsane; si fa sempre più chiaro che sui Beato gravano molte terribili colpe – e altre sono destinate ad aggiungersi. Nuove vittime e nuovi carnefici arrivano a occupare la scena, conferendo alla trama una colorazione noir.

Il romanzo alterna due voci, quella di Paula, nelle lettere che indirizza all’amica Luz, e quella della stessa Luz, che è la vera e propria narratrice delle vicende che capitano alla protagonista. Ma ci sono pagine di grande intensità, forse le più belle, dove sono i morti innocenti a parlare, raccontando la loro storia come un coro che recita a una sola voce.

Nonostante l’aggancio a fatti storici concreti, la prosa di Marta Sanz non punta al realismo; il suo stile unisce crudezza, precisione e un’immaginazione corposa, a tratti barocca. Metafore, anafore, giochi fonetici, elementi onirici, descrizioni macabre si sposano con contenuti storici e analisi precise di comportamenti e motivazioni e questo intreccio allontana il romanzo dalla semplice rievocazione di un momento del passato e dei suoi strascichi nell’oggi. La scrittura ha carattere, è sanguigna, spesso visionaria; vi si ritrovano elementi fiabeschi – ma di fiabe sinistre e feroci, le fiabe di orchi. La violenza è descritta senza sconti. Le immagini traboccano e si riversano l’una sull’altra e avvolgono gli accadimenti in un alone ancora più tragico, morboso, tetro, spesso apertamente crudele.

Forse un limite sta proprio nell’eccessiva fioritura di immagini e nella proliferazione di preziosismi linguistici, che a tratti appesantiscono il racconto. Anche la figura dell’ex marito di Paula, interlocutore silenzioso a cui Luz si rivolge con veemenza, rimproverandogli di essere indifferente, è ridondante, specie nella seconda parte. In molti punti però, come nel bel capitolo intitolato Poltergeist, la narrazione è incalzante, intensa, capace di rievocare con una forza non comune eventi drammatici, togliendoli dall’oblio e restituendo dignità alle vittime.

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