Mirinae Lee, “Le otto vite di una centenaria senza nome”, Nord (2024)

 

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È intrigante questo romanzo d’esordio della sudcoreana Mirinae Lee. Sebbene la scrittura non possieda qualità particolari (l’originale è in inglese), la costruzione è ingegnosa e sa sfruttare bene l’effetto sorpresa. E di sorprese ce ne sono molte, in questo racconto che ripercorre decenni di storia della Corea attraverso le vicende di Mook Miran – ma nulla ci garantisce che sia il suo vero nome. L’occasione per narrare l’incredibile vita di questa donna esile e scaltra, ormai quasi centenaria, si presenta quando un’impiegata della casa di riposo in cui è ospitata ha l’idea di coinvolgere gli anziani nella stesura del loro necrologio. Grazie a questo espediente, ciascuno può rileggere la propria esistenza e mettere in luce ciò che considera degno di essere ricordato, sperando di sottrarsi all’oblio. Per aiutarli a organizzare il racconto del loro passato, i pazienti vengono invitati a scegliere tre parole che ne identifichino i tratti significativi. Tutti si adattano volentieri, ma non la lucidissima e vivace Mook, per la quale tre parole non sono sufficienti. A lei ne servono sette, una per ognuna delle sette vite che ha vissuto e delle sette identità che ha assunto: schiava, artista della fuga, assassina, terrorista, spia, amante, madre. E ancora non bastano, perché c’è un’ottava vita e un’ottava identità, di cui noi stessi siamo i testimoni.

Sarebbe un peccato svelare troppo delle vicissitudini di Mook. Basta accennare alla sua infanzia nella Corea occupata dai giapponesi, in un villaggio rurale non distante da Pyongyang, con genitori molto mal assortiti: la madre è una donna colta e sensibile originaria di Seul, il padre è invece un pescatore del Nord ottuso e manesco. Adolescente durante il secondo conflitto mondiale, Mook viene condotta con l’inganno nella Stazione di Conforto di una base militare in Indonesia e rinchiusa in condizioni disumane, trasformata a forza in schiava sessuale dei soldati giapponesi impegnati nella Guerra del Pacifico. È giovane donna durante la Guerra di Corea, fuggiasca affamata e infreddolita, docile solo in apparenza, mentre infuria lo scontro tra i comunisti del Nord e i soldati del Sud affiancati dagli Americani, da cui il Paese uscirà diviso e stremato. Vive in molti posti, a Nord e a Sud, nelle capitali e nelle province e perfino in luoghi che sembrano nati solo dalla fantasia. Impara molte lingue e riceve molti nomi. È agente segreto e delatrice, vittima e omicida, conosce la povertà più estrema e i privilegi di una spia sotto copertura. Sopravvive ad anni feroci e vicende brutali, ma vive anche l’intimità dell’amicizia e la pienezza dell’amore, la tenerezza e la gioia di essere moglie e madre. Riesce a provare sentimenti autentici senza mai perdere la sua caratteristica ambiguità. Mook porta sulla pelle le cicatrici della sua storia, che è la storia del Paese, dal dominio coloniale giapponese ai giorni nostri, passando per la guerra civile e la chiusura del Nord su se stesso, in un’autarchia contrassegnata dall’ideologia più inflessibile e dal totalitarismo più verticistico. Con pennellate efficaci, il romanzo descrive i meccanismi propagandistici e le tecniche manipolatorie che hanno permesso al regime di assumere il controllo assoluto della vita dei suoi cittadini, inoculando sin dall’infanzia il dovere dell’obbedienza e il germe del sospetto. L’elusività di Mook si attaglia bene a questo contesto da cui ogni spontaneità è bandita. Il romanzo ci tiene sempre in dubbio: quanta verità è sparsa tra le bugie e quante invenzioni si celano in mezzo alla realtà, nelle parole di questa dissidente silenziosa, spinta a dissimulare per non soccombere?

Il racconto è spesso drammatico e ci sono pagine davvero intense, tuttavia ciò che emerge con forza non è tanto il lato tragico, quanto piuttosto l’insopprimibile istinto di sopravvivenza di Mook Miran, la sua tenacia e la capacità di sopportare, il suo coraggio, l’ingegnosità, la vocazione alla finzione, all’inganno, al camuffamento, che le permette di non cedere mai alla disperazione, ma anche di essere se stessa senza esserlo mai pienamente, di esistere e resistere dietro una nuova apparenza. Non ha mai perso del tutto la strana abitudine di mangiare la terra e questo legame diretto con il suolo contrasta con la doppiezza a cui la vita l’ha costretta.

Le voci narranti cambiano e non sempre è Mook a parlare; cambiano anche gli scenari del racconto, la narrazione biografica compie dei salti e non rispetta l’ordine cronologico, stuzzicando abilmente la curiosità del lettore. Non restano però fili pendenti: tutto si chiarisce e viene a comporre un unico disegno, sfaccettato, sfuggente e complesso come la sua protagonista.

Francesca

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