Olivier Guez, “La scomparsa di Josef Mengele”, Neri Pozza (2018)

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Vorrei dare avvio a questo appuntamento settimanale con la presentazione di un libro letto questa estate, che mi ha colpito per la perizia narrativa e per la quantità di notizie storiche. Non a caso è stato il vincitore in Francia del Prix Renaudot 2017.

Protagonista è proprio Josef Mengele, il famigerato medico di Auschwitz, di cui Guez ricostruisce la vita, soffermandosi soprattutto sui lunghi anni tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la sua morte, avvenuta nel 1979.

Dopo aver vissuto in clandestinità per qualche tempo a seguito della sconfitta tedesca, alla fine degli anni Quaranta Mengele sbarca in Argentina, grazie a una rete di complicità naziste e filonaziste. In effetti, l’Argentina di Peron è non solo indulgente, ma addirittura ospitale con i nazisti, convinta che questi la aiuteranno nell’ambizioso progetto di assurgere a nazione di primo piano nel mondo del Dopoguerra, segnato dalla devastazione dell’Europa e dalla Guerra Fredda tra USA e URSS.

Così, lo scienziato che non arretrava davanti a nessun esperimento finalizzato a migliorare la razza ariana, l’uomo che a scuola soprannominavano «lo zingaro» per il colore di pelle e capelli, comincia una nuova esistenza, convinto che presto raccoglierà i frutti del suo lavoro e tornerà a lavorare per rinascita degli ideali nazisti.

Dall’Argentina al Paraguay al Brasile, dove di volta in volta si sposterà, la vita di Mengele, invece, involve piano piano nella solitudine e nella paranoia. Cambia più volte residenza e attività, implora e pretende l’aiuto di familiari, amici e simpatizzanti sempre più infastiditi e, dopo la spettacolare cattura di Eichmann, sprofonda in un pozzo di problemi di salute fisica e psichica, ossessionato dalla propria incolumità. In nessun caso e in nessun momento si mette in discussione. In fin dei conti, non ha fatto che il suo dovere nei confronti della Patria. L’odio razziale e la superiorità della Germania, la visione «predatoria» del mondo, la sopraffazione del forte sul debole, l’eugenetica, sono idee che Mengele non rinnegherà mai.

Pagina dopo pagina, siamo irretiti da questo libro, sia intellettualmente che emotivamente.

Da un lato, si scoprono fatti sulla vita di protagonisti del nazismo sopravvissuti alla guerra, sulla storia della Germania postbellica, per molti anni impossibilitata a fare i conti fino in fondo con il suo passato, troppo vivo ancora nel suo presente (sociale, economico, politico) e su quei Paesi sudamericani che a lungo hanno protetto, nascosto e mantenuto nazisti fuggiti dalla Germania, permettendo loro di vivere in tranquillità e prosperità.

Dall’altro lato, Guez è abilissimo narratore, capace di smuovere emotivamente e moralmente il lettore man mano che costruisce il ritratto di una personalità che è l’incarnazione stessa della «banalità del male» di cui parlava Hannah Arendt. Mengele ne esce come un uomo meschino, egocentrico, pavido, invidioso, frustrato, infantile nel suo bisogno di attenzione, assolutamente incapace di empatia e di provare una qualsiasi forma di pentimento. Particolarmente intense sono le pagine dedicate al confronto con il figlio: le domande che lui rivolge al padre sono le stesse che vorremmo fargli noi e nostro è il suo bisogno di capire.

Un’ultima annotazione: in copertina viene dichiarato che si tratta di un romanzo, perché ci sono buchi nella conoscenza della vita di Mengele; proprio il definirsi opera di fantasia permette di ricostruire dialoghi e momenti biografici di cui non c’è testimonianza. Ma basta scorrere la vasta bibliografia nelle pagine finali per rendersi conto di quale lavoro documentario sta alla base di questo «romanzo».

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