Paul Auster, “Baumgartner”, Einaudi (2023)

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Seymour T. Baumgartner è un professore di filosofia settantenne, gentile e un po’ distratto, che vive da solo da quando è rimasto vedovo. Sono passati ormai quasi dieci anni dalla morte improvvisa della moglie Anna, travolta da un’onda gigantesca mentre nuotava. Il loro amore è stato grandissimo e altrettanto grande è ora il dolore, la malinconia, il senso di perdita. Lo punge anche il cruccio per non averle impedito di tuffarsi nel mare che si faceva grosso, pur sapendo che non sarebbe servito a niente, perché Anna era gelosa della sua indipendenza e non si sarebbe fatta fermare. I primi mesi di lutto, Baumgartner li trascorre in preda a una sofferenza sorda, che lo inebetisce; si aggira per casa ritrovando ovunque la presenza della moglie, sistemando e risistemando le sue cose, i vestiti, le moltissime pagine che lei aveva scritto ma era restia a pubblicare. Alla fine, come per regalarle una nuova vita, dà alle stampe una raccolta delle sue migliori poesie e, un po’ alla volta, sembra ritrovare un equilibrio; sostituisce il mobilio e i suppellettili, riprende a insegnare, a scrivere, a frequentare amici, si concede numerose relazioni erotiche. Tuttavia, ognuna di queste attività è prima di tutto un tentativo di reprimere la nostalgia e lo struggimento. Nascosta sotto la superficie, la ferita non si è ancora rimarginata e Baumgartner è ancora imprigionato nel ricordo della moglie e del loro amore; più si impone di distogliere lo sguardo dall’assenza di Anna, più la “fenditura nel tempo” si apre, facendo affluire il passato nell’oggi e contaminando il presente.

Le cose stanno così anche la mattina in cui si scotta con un pentolino che ha dimenticato sul fuoco. È stato l’acquisto di questo pentolino a fargli incontrare Anna per la prima volta e vederlo ormai carbonizzato e inutilizzabile, lo costringe a una presa di coscienza fondamentale. Lo sforzo di non pensare alla moglie non ha fatto che tenerlo incastrato “tra due stati d’animo contraddittori e reciprocamente distruttivi”: il bisogno di tenerla a distanza e quello di aggrapparsi a lei.

Innescato dall’incidente con il pentolino, il percorso verso il superamento del lutto e del senso di solitudine viene scandito da due telefonate, di natura ugualmente surreale, e da una lettera: dapprima telefona un incaricato della società elettrica, un letturista di contatori che si scusa per il ritardo su un appuntamento che il nostro anziano protagonista nemmeno sapeva di avere; poco dopo Baumgartner sogna di ricevere una telefonata dalla moglie, la quale lo esorta a lasciarla andare; infine, arriva per posta la lettera di una dottoranda in letteratura, che sta scrivendo la sua tesi sull’opera di Anna e chiede di avere accesso anche ai materiali non editi, quindi avrebbe necessità di passare a trovarlo. Questi eventi inattesi sono richiami in cui la voce di un’altra persona lo sollecita a cambiare. E Baumgartner ricomincia a vivere. Capisce di dover fare i conti con la sua perdita e si immerge consapevolmente nei ricordi, per riemergerne finalmente rinato. Il nodo che lo teneva avvinto alla moglie si allenta e lui può tornare ad abitare il presente, fare progetti per il futuro e riattivare la memoria di un tempo in cui Anna non c’era ancora, il tempo della sua infanzia e giovinezza, riconciliandosi con la famiglia di origine. Si dedica a studiare la sindrome dell’arto fantasma, metafora perfetta di ciò che non smette di provare dalla morte repentina di Anna, trovando le parole per esprimere l’assenza che non smette di farsi sentire. Ritrova così la gioia di muoversi in uno spazio interiore di nuovo aperto. “Poco importa se il passo è più lento di prima, poco importa se a volte viene bersagliato da un acquazzone o percosso da un vento furioso e tagliente che soffia da est, lui resta in posizione eretta e deambulante”, con “una rinnovata fiducia nell’avvenire”. Un avvenire in cui Anna è ancora al centro della sua vita, ma in modo nuovo, più pacato, e lui è libero di tentare un nuovo amore, scrivere un libro del tutto diverso dai precedenti, percorrere nuove strade, sebbene non sempre lo portino dove sperava.

La scrittura di Auster è accattivante e scorrevole, condita con un’ironia leggera anche quando affronta la disperazione, che appare comunque ovattata. È con tono quieto e misurato che parla di solitudine, dolore, lutto e del suo superamento, di una ritrovata disponibilità ad accogliere il futuro, per quanto imprevedibile. Queste pagine sono piene di tenerezza, amore, malinconia e di casi fortuiti, perché “al contrario di quanto ci ripetono da anni eminenenti razionalisti, gli dei si sentono più felici e realizzati quando giocano a dadi con l’universo”.

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