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Jon Fosse, Mattino e sera, La Nave di Teseo, 2019
Un romanzo breve, apparso in originale nel 2000 e in italiano nel 2019. L’autore è norvegese ed è il vincitore del Premio Nobel per la Letteratura di quest’anno, celebrato sia per i testi per il teatro che per l’opera romanzesca, tra cui il corposo Settologia, formato da sette ampi capitoli; la casa editrice La Nave di Teseo ha pubblicato in italiano le prime cinque parti, suddivise in due libri, il primo nel 2021, il secondo appena un paio di mesi fa.Mattino e sera può rappresentare un buon punto d’accesso all’opera e allo stile di questo scrittore. È un romanzo in cui vedo molti tratti poetici, la presenza di immagini altamente significative e una costruzione raffinata. Il racconto si concentra su due soli giorni nella vita dell’umile pescatore norvegese Johannes. Due giorni collocati agli estremi opposti e separati da molti decenni, legati tra loro da sottili rimandi e dalla capacità di Fosse di conferire spessore al tempo, delineando con pochi tratti un’intera esistenza. Due giorni speciali, contrassegnati da esperienze del tutto private e soggettive, non ripetibili e non condivisibili, che pure qui vengono raccontate dall’interno. Questi vissuti per definizione confinati nell’invisibilità trovano espressione grazie a una prosa dal fraseggio lavoratissimo ma estremamente fluido, un lessico semplice e concreto che non si discosta mai dal linguaggio quotidiano, ma levigato con cura, una costruzione sintattica particolare che opera sull’accostamento di parole e frasi per cimentarsi con l’ineffabile e con il trascendente.La scrittura di Fosse è davvero unica. Non pone nessuna difficoltà, benché non abbia nulla di banale. È dotata di ritmo e musicalità, sebbene non ricorra mai al punto; a parte qualche occasionale a capo in presenza di un dialogo, sempre molto scarno, il testo usa solo virgole e punti di domanda. A scandirlo vi è però la frequentissima ripetizione di termini e sintagmi, a cominciare da “pensa”, “Johannes pensa”, ma anche di “è così” e dell’avverbio “sì”, a segnalare l’accettazione degli eventi, di tutto ciò che succede. Anche la costruzione della voce narrante è molto particolare. Buona parte del romanzo è occupata da un monologo interiore, dunque da un flusso di coscienza, interrotto di tanto in tanto dalle voci o dai pensieri di altri personaggi e, soprattutto, dalla descrizione minuziosa dei gesti compiuti da Johannes. Così, al posto di un io narrante, si dà un movimento continuo dall’interno all’esterno e viceversa: da un lato, il lettore ha un accesso diretto alla vita mentale del protagonista, al suo sentire, alle sue domande, alle sue considerazioni, dall’altro lo osserva dall’esterno. Pertanto, prova empatia e al contempo può ragionare su di lui e sugli eventi che gli capitano; eventi che sempre più mostrano un aspetto sconcertante, il quale man mano dilaga nella trama del quotidiano e sembra erodere la densità delle cose e alterare il normale scorrere del tempo. Il pastore Johannes ha una vita faticosa. Tuttavia, questa esistenza così semplice e umile ha come sua costante non solo la durezza, ma anche l’amore. È con amore che viene accolto nel mondo quando nasce, l’amore della madre e del padre, con il quale in seguito sorgeranno dissapori, ma che comunque lo ha voluto. È il corpo morbido e caldo della madre a consolare e a mitigare lo spaesamento del neonato che si trova assalito da un turbinio di sensazioni confuse. È con amore che, da adulto, la moglie lo aspetta a casa ogni sera, con la luce accesa e il caffè caldo. È la cura di una delle figlie ad alleviare le sue giornate da vecchio. È l’amicizia di Peter, anch’egli pescatore, ad accompagnarlo lungo gli anni; i due si tagliano vicendevolmente i capelli e Peter è lì per lui nei momenti cruciali, per soccorrerlo e aiutarlo. In queste pagine la dolcezza prevale sempre sulla tristezza, il legame affettivo sul senso di solitudine. Per quanto modesta, anche la vita senza pretese di Johannes si lascia dietro qualcosa, qualcosa che gli altri possono raccogliere, non fosse che un sacchetto pieno di ottimi granchi carnosi.In fondo, l’esistenza che qui Fosse racconta, riducendola ai suoi termini minimi, i più essenziali e universali, è quella di ognuno di noi: nascita, morte, lavoro, amore, amicizia. E noi ci riconosciamo in lui, nelle piccole abitudini che scandiscono il nostro tempo, nell’alternarsi di senso di pesantezza e leggerezza, abbattimento e sollievo, solitudine e comunione con chi ci è caro. Mentre Johannes sta nascendo, il padre si interroga sul senso della vita, sul nostro destino di individui, gettati da soli in questo mondo freddo e duro, separati dagli altri, si chiede se davvero il nostro percorso di esseri umani sia racchiuso tra due nulla, quello da cui veniamo prima di nascere e quello a cui approdiamo con la morte. La risposta di Fosse la troviamo nella seconda parte del romanzo, colma di malinconia, ma anche di luminosi sentimenti di affetto, di spiritualità, pienezza e pacificazione. Francesca