Ron Rash, “Un piede in paradiso”, La Nuova Frontiera (2021)

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Un romanzo bellissimo, intenso, forte; risale al 2002, ma è stato tradotto solo di recente da Tommaso Pincio, a cui si deve anche la versione italiana di La terra d’ombra, altro splendido libro, uscito lo scorso anno sempre per La Nuova Frontiera. Nato nel 1953, Ron Rash è uno scrittore in cui ritroviamo uno sguardo e temi ricorrenti nella letteratura del Sud degli Stati Uniti, da Faulkner a Cormac McCarthy, a Kent Haruf. Tuttavia, ciascuno di questi scrittori è irriducibile agli altri e Rash ha una voce solo sua, un modo unico di declinare realismo e poesia, chiarezza e allusività. La prosa è limpida, semplice, eppure evocativa, ricca di immagini e metafore che toccano l’intelletto e le emozioni del lettore. Coesistono in questo romanzo (così come in La terra d’ombra) momenti crudi e passaggi commoventi, la durezza del lavoro della terra e la magnificenza della natura, la concretezza dei corpi e il persistere del magico, delicati sentimenti di amore e grandi egoismi.

I dialoghi sono stringati, scambi elementari, ed è pertanto con un certo stupore che scopriamo la profondità che si cela sotto parole e gesti scarni. A poco a poco percepiamo un vissuto molto più complesso di quanto potessimo supporre dall’asciutta riservatezza dei personaggi, ma anche più torbido e inquieto di quanto lasciassero immaginare le loro esistenze così comuni.

Siamo nei primi anni Cinquanta, in una piccola contea della Carolina del Sud. È estate, il caldo è opprimente, la siccità brucia le colture e su tutto incombe greve l’attesa della fine: una compagnia elettrica sta erigendo una diga e nel volgere di qualche anno la vallata sarà completamente sommersa. D’altronde la località si chiama Jocassee, come la principessa cherokee morta annegata e mai più ritrovata; nella lingua degli abitanti di un tempo, Jocassee significa appunto “vallata degli scomparsi”. È dunque una nemesi: i Cherokee sono stati scacciati dai coloni, che a breve verranno a loro volta spazzati via dalla modernità. Ma questa volta nessun altro arriverà a popolare queste terre, condannate a restare sott’acqua per sempre.

In uno di questi lunghi giorni senza pioggia, all’improvviso scompare un uomo, un balordo di nome Holland. È un reduce della guerra di Corea, dove si è distinto al punto da meritarsi una medaglia, però adesso si è perso: beve e attacca briga perché ha bisogno di dar sfogo al malessere che porta sempre con sé, così come i macabri cimeli dei nemici abbattuti. Sin dal primo istante la madre si dice certa che sia stato ucciso. Afferma di aver udito uno sparo e indica l’omicida nel proprietario della fattoria vicina, Billy, che avrebbe agito per gelosia.

La vicenda viene raccontata da cinque voci diverse, in altrettanti monologhi che ci fanno scoprire non solo i fatti, ma ciò che li ha determinati e che ne è derivato. Al contempo, ciascun personaggio svela i suoi stati d’animo, i suoi tormenti, le sue paure, le ferite logoranti, le colpe di cui si macchia. Lo sceriffo preposto all’indagine su Holland, Billy, sua moglie Amy, il figlio Isaac e, da ultimo, il vice sceriffo si susseguono nell’offrirci il proprio punto di vista. Questa polifonia struttura la narrazione, ne accresce il senso e la potenza drammatica e il racconto finisce per coinvolgerci completamente. Sebbene non sia affatto un thriller, la trama è tutta da scoprire e sarebbe un peccato svelarla. Basta dire che è una storia colma di amore e di colpe, di retaggi del passato e di azioni che, in modo volontario o involontario, provocano tragedie. Eppure in nessuno dei personaggi c’è malvagità; piuttosto, essi si trovano incastrati in una situazione di necessità psicologica, spinti da un sentimento, un’angustia segreta e invisibile, un bisogno di rivincita che li assilla.

Oltre alle figure umane, vi è un altro protagonista nel romanzo: il paesaggio. La vallata che sta per essere inondata non è uno spazio su cui gli attori si muovono, ma il luogo a cui appartengono visceralmente e con cui vivono in simbiosi, ed è straziante doversene separare. Le alture, il fiume, i campi, la luce, i boschi riempiono le pagine, rispecchiando e amplificando ciò che agita l’animo dei personaggi. Tuttavia, qui non c’è alcuna visione idilliaca: la piccola comunità è formata da fattorie distanti e separate e solo la chiesa è punto di incontro. La quotidianità di questa gente è fatta di fatica fisica e incertezza, segnata dalla precarietà, alla mercè del clima, dei parassiti, del fuoco, dei molti eventi che in un attimo possono vanificare il duro lavoro di mesi e azzerare il guadagno; e poi qui allignano ancora superstizioni, l’emarginazione di chi è diverso e una grande solitudine.

Tra gli elementi naturali, è l’acqua a occupare la maggior parte dello spazio reale e metaforico del romanzo. È l’acqua invocata per fermare la siccità e far rinascere la terra, ma anche l’acqua temuta che metterà la parola fine, l’acqua in cui si battezzano gli abitanti e quella che custodisce i morti. Se la siccità richiama la sterilità delle coppie del romanzo, l’acqua della diga ricorda il diluvio universale: sale repentina e sommerge le piante, le strade, il cimitero, il fiume stesso, ma soprattutto costringe alla resa dei conti con le scelte fatte e le azioni compiute, prima che il passato venga sepolto per sempre.

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