Shirley Jackson, “Abbiamo sempre vissuto nel castello”, Adelphi (2009)

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Apparso in inglese nel 1962 e tradotto nel 2009 da Adelphi, che ha in corso la pubblicazione dell’intera opera dell’autrice americana, questo romanzo è un caposaldo della letteratura del terrore, ma di un terrore senza sangue e che sconfina nel fantastico. Shirley Jackson è davvero brava. Sa trasmettere inquietudine, ansia, smarrimento, un senso incombente di pericolo senza bisogno di ricorrere né alla violenza né al soprannaturale. Le basta costruire con maestria la tensione, l’aspettativa di un dramma inevitabile che però non necessariamente avrà la forma attesa. E con sapienza, mantiene sfumati i contorni delle situazioni e delle vicende: dice senza chiarire fino in fondo, allude, accenna, lascia intuire possibilità, sollecitando così l’immaginazione e suscitando allarme. Pagina dopo pagina, il nostro turbamento cresce di pari passo alla sensazione di anomalia e al dubbio sulla verità di ciò che ci viene raccontato. Il tono pacato e un sottilissimo sarcasmo contribuiscono a creare questa atmosfera torbida e ambigua.

La voce narrante è quella di Mary Katherine Blackwood, detta Merricat. Mary abita in una grande ed elegante dimora circondata da un parco, ai margini di un paese qualunque; tempo e luogo non sono specificati e questa sospensione si addice alla perfezione alla natura e alle tematiche della storia. Insieme a lei vivono l’amatissima sorella Constance, di 10 anni più grande, un gatto a cui Mary è molto legata e lo zio Julian, costretto su una sedia a rotelle e soggetto a frequenti malesseri e vaneggiamenti. A lui è affidato l’elemento di comica ferocia che attraversa il romanzo, così come i ricordi degli eventi che hanno segnato il passato di questa famiglia e di cui le due sorelle non parlano mai. Ma siccome zio Julian è confuso e farneticante, le sue parole non riescono mai a rendere appieno il senso di ciò che è avvenuto. È Constance a gestire la vita quotidiana; si occupa con grazia e dolcezza dei suoi cari e dell’orto e cucina piatti gustosi e genuini. Sempre sorridente, sempre accudente, sempre alle prese con i lavori domestici o la preparazione dei pasti. Intanto, però, resta volutamente confinata nel piccolo perimetro delimitato da casa e orto, senza mai neppure accostarsi alla recinzione che impedisce l’entrata agli estranei. Se Constance non esce mai, Mary lo fa controvoglia e solo in giorni fissi. Va in centro per comprare il poco che l’orto non produce e scegliere in biblioteca i libri per sé e per la sorella. Ma il paese non ama la famiglia Blackwood e le sue uscite (raccontate in un brano memorabile) sono circondate dall’ostilità degli abitanti, che la fanno sentire in pericolo e derisa.

Tra le mura della casa, l’esistenza di questo gruppetto di personaggi scorre invece al sicuro e quieta, scandita da una routine immutabile che preserva questo piccolo mondo dal male e dalla cattiveria del mondo esterno. Il loro è un paradiso di luce, tepore, ordine e pulizia, tenuto in modo impeccabile dalle due ragazze e governato solo dall’amore e dalla libertà. Ma ne siamo sicuri? Questa casa è davvero un’oasi di serenità in una società grigia, diabolica e volgare, oppure conosce anch’essa il male e la devianza? Come si spiegano i rapporti tra gli abitanti del paese e le sorelle Blackwood?

Un po’ alla volta i comportamenti di Mary assumono un altro senso; la sua paura degli estranei, le sue azioni, le sue fantasie (un cavallo alato che porti lei e la sorella a vivere sulla luna), tutto ci fa capire che è una ragazza disturbata. Ma anche Constance, con la sua reclusione esasperata e la sua soavità inscalfibile da angelo del focolare è una figura altrettanto perturbante. Il rapporto tra le due donne, così esclusivo, così simile a una relazione equivoca tra madre e figlia, il loro bastarsi, il loro accomodamento nella grande casa, il bozzolo sempre più stretto che le avvolge e in cui sono convinte di vivere una vita felice: tutto appare cupo e soffocante ai nostri occhi. Quando l’arrivo improvviso di un cugino losco e avido stravolge l’equilibio di questa coppia, la situazione precipita e la trappola si chiude.

Shirley Jackson affida il racconto a una voce narrante che da un lato ci fa vedere ogni cosa attraverso i suoi occhi, ci coinvolge nei suoi pensieri e sentimenti, dall’altro si rivela a poco a poco non del tutto credibile, perché instabile e palesemente infantile. Questo provoca nel lettore grande sconcerto: ci troviamo a camminare su un piano inclinato, condotti per mano nella storia da una guida da cui dipendiamo totalmente ma di cui ci fidiamo solo in parte. Costretti a condividere il suo mondo pur sapendolo malato.

Al contempo, ci accorgiamo con un brivido che la società, quella formata dalle cosiddette persone normali, sotto un leggero strato di civiltà, ha una natura ancora e sempre brutale, selvaggia, irrazionale e crudele. Primitiva anche quando cerca di riparare ai propri torti. Dove trovare salvezza dalla follia?

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