Usama Al Shahmani, “Quando migrano, gli uccelli sanno dove andare”, Marcos y Marcos (2024)

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Usama Al Shahmani, Quando migrano, gli uccelli sanno dove andare, Marcos y Marcos, 2024

“Quando hai la sensazione che tutti i giorni s‘assomiglino e che il tuo tempo sia rimasto impigliato da qualche parte, allora devi cercare un fiume, sederti sulla riva e osservare l’acqua. Capirai che il tuo tempo ha trovato una nuova direzione e che la tua vita è in movimento”.

Un racconto toccante, che restituisce con un linguaggio semplice e intriso di poesia il vissuto di chi è costretto all’esilio e alla lontananza. È la storia di Dafer, fuggito dall’Iraq di Saddam Hussein e riparato in Svizzera, dove riesce a stabilirsi, lavorare e ricominciare a vivere, nonostante gli venga negato lo statuto di profugo politico. Quando il romanzo si apre, Dafer, alter ego dello stesso Al Shahmani, con cui condivide il percorso biografico, abita a Weinfelden e ha appena iniziato un periodo di vacanza dal suo lavoro in un ristorante sul lago di Costanza; le giornate prive di impegni lo dispongono al ricordo, così il passato fluisce liberamente nel presente e lo inonda. Un passato angosciante, “un campo di macerie pieno di orrore e paura”, che tuttavia la nostalgia tinge a tratti di dolcezza e di rimpianto: per la famiglia lontana, per gli amici di un tempo, per i paesaggi e i luoghi che sono stati la sua casa. In Svizzera è libero e al sicuro come non è mai stato prima, ma la mancanza di ciò che ha lasciato e il retaggio di ciò che ha vissuto lo opprime. A offrirgli conforto è il contatto con la natura e la letteratura, la sua grande passione; leggere, scrivere, camminare nei boschi e lungo il fiume Aar, osservare il volo degli uccelli è ciò che gli permette di riacquistare speranza, riempire il vuoto e superare il profondo turbamento che ancora prova e che ha accompagnato ogni suo momento nell’Iraq dominato da un regime oppressivo e bellicista. “Nel dialetto iracheno la lama di coltello si chiama mady, che in arabo standard significa il passato”. Il ricordo del passato è davvero un’arma a doppio taglio, che lo riempie di dolore e al contempo lo lascia con un senso di estraneità rispetto alla sua vita attuale. Poiché ogni elemento del presente apre le porte della memoria e riporta Dafer in un altro tempo e in altri luoghi, il romanzo si muove di continuo tra più momenti e ambientazioni, ripercorrendo gli anni dell’infanzia e della gioventù, prima nel Sud dell’Iraq, poi a Bagdad. Ci offre dunque una testimonianza diretta sulla vita in Iraq negli ultimi decenni, nonché una visione del presente: proprio in piena guerra civile, Dafer torna infatti a trovare la sua famiglia per un breve soggiorno, dopo il quale avrà la sensazione di avere perso “tutto quello che, malgrado la lunga separazione, aveva ancora in comune con la patria”.

Dafer nasce nei primi anni Settanta in una cittadina meridionale sciita, mentre al potere ci sono i sunniti. Ha solo nove anni quando il suo Paese entra in una lunghissima e sanguinosa fase di guerra, dapprima con l’invasione dell’Iran voluta da Saddam Hussein, poi, dopo una breve tregua, con l’annessione del Kuwait, che scatena la reazione internazionale. Intanto si stringe la morsa della dittatura sulla popolazione. Dafer cresce in un clima in cui il controllo governativo è onnipresente, la minaccia costante e le punizioni implacabili. I servizi di sicurezza hanno occhi e orecchie ovunque, anche nelle scuole dei bambini, che imparano presto a frenare la lingua. Si vive nel terrore e con poca speranza nel futuro, ancor più se si è sciiti o curdi. Grazie agli ottimi voti, il nostro protagonista ottiene il permesso di spostarsi a Bagdad per frequentare l’università, dove viene ammesso alla facoltà di lingua e letteratura araba. Si arrabatta con i pochi mezzi economici a disposizione, si appassiona sempre più alla letteratura, anche a quella proibita, e intanto cerca di non far trapelare al di fuori della piccola cerchia intima la sua opposizione al regime.

Dopo che viene messa in scena nel teatro dell’università una sua pièce in cui esprime una larvata critica al potere, Dafer è costretto a fuggire dal Paese. Non ha il tempo di congedarsi e questa improvvisa lacerazione gli lascerà cicatrici permanenti, visibili anche adesso che ha una nuova vita, nuovi legami, una nuova lingua, il tedesco, senza il quale “gli è ormai difficile immaginare di vivere” e grazie al quale ha messo le prime radici nella nuova realtà.

Arriva in Svizzera nel 2002 quasi per caso, dopo una fuga rocambolesca, e inizia un lungo percorso tra centri di accoglienza e angusti appartamenti per asilanti, sotto lo sguardo di funzionari diffidenti. È interessante lo scorcio che si apre su questo mondo di profughi con diverse provenienze, storie e progetti. I frequenti trasferimenti coatti non permettono di instaurare legami, l’attesa è infinita e demoralizzante, la solitudine pesa. “Sono sfuggito alla morte” pensa Dafer “ma ora il problema è cercare di non annegare nella mia barca”. Riuscirà a salvarsi e a mantenere viva la speranza, nonostante l’angoscia per ciò che avviene in Iraq, e ad aiutarlo saranno le parole: “se trovi un linguaggio per la ferita, puoi aiutarla a guarire”.

La traduzione dall’originale tedesco è di Sandro Bianconi.

Francesca

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