Yasmina Khadra, “Khalil”, Sellerio, (2018)

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Il terrorismo di matrice islamista. Un tema forte e di grande attualità sta al centro del nuovo romanzo, da poco in libreria, di Yasmina Khadra, pseudonimo di uno scrittore algerino, ora residente in Francia, che da decenni riscuote un meritato successo di pubblico e critica a livello internazionale.

Khalil è un giovane marocchino cresciuto in Belgio. Una storia come tante, la sua: irrequieto, abbandonato a se stesso da una famiglia che ha altro a cui pensare, una frequenza scolastica altalenante e di scarso successo, nessun adulto a fare da punto di riferimento, nessun progetto, un ambiente sociale che è spesso ostile agli stranieri. Insomma, una vita ai margini; perché si è nati al margine e non si ha la forza di cambiare e perché ai margini si è confinati dagli sguardi, dai commenti e dagli atteggiamenti degli altri. Il clima in cui Khalil cresce e vive è quello di chi non si sente mai a casa, mai al posto giusto. Fino a che un amico non lo porta con sé in moschea e qui incontra figure che lo plasmano, lo convincono che lui può essere importante e contare qualcosa, che può conquistarsi il rispetto che non ha mai avuto, purché non si faccia troppe domande e si metta al servizio di un ideale, una guerra sacra che non è solo legittima, ma nobilitante. E, contemporaneamente e altrettanto fondamentalmente, che può vendicarsi di chi lo ha sempre svalutato.

Lo ritroviamo a Parigi, imbottito di esplosivo davanti allo Stade de France nella notte dell’eccidio al Bataclan, pronto al martirio.

Siamo in un romanzo, ma di grande realismo. La forza di Khadra sta nella sua capacità di farci entrare nei pensieri di Khalil, di offrirci una prospettiva in prima persona su una mente altrimenti incomprensibile.

Da un lato, ci offre uno sguardo attento sui meccanismi sociali che possono innescare certe aberrazioni: «l’esclusione esacerba la suscettibilità, la suscettibilità provoca frustrazione, la frustrazione genera odio e l’odio porta alla violenza» (…) «Sono belgi. Sono nati qui. Sono andati a scuola qui. Sono cresciuti qui. È questo il loro paese (…) Un paese non si contruisce sull’identità, ma sulla cittadinanza». Dall’altro, ridimensiona ogni meccanicismo sociale, ricordandoci che la responsabilità personale esiste : «Che ragioni possono esserci in ciò che è insensato? … Il cervello ce l’abbiamo per usarlo. Il male è male. Niente lo giustifica e niente lo ridimensiona. Una persona ragionevole obbedisce solo alla propria coscienza». In questo senso, la prima vittima di questa guerra è la coscienza di chi vi aderisce.

Essenziale, inoltre, lo spazio dato alle molte voci che popolano il mondo dell’immigrazione musulmana. Assistiamo al dibattito serrato, al tentativo di comprendere, sentiamo le espressioni di dissenso, di condanna assoluta del terrorismo e della violenza, ancor più se perpetrata in nome della religione, vediamo la vita diversa di chi è riuscito nell’impresa dell’integrazione, come Rayan, amico di infanzia di Khalil, che con lui ha condiviso un grande tratto di esistenza, eppure ha imboccato una direzione completamente diversa. Così, laddove Khalil ha visto luce e speranza di riscatto, Ryan vede solo tenebra e ingiustificabile barbarie.

Tutto questo in quello che resta un romanzo a pieno titolo, con una trama avvincente, piena di pathos e di tensione, non non solo grazie al bisogno, sempre minacciato, di clandestinità, ma anche grazie all’insinuarsi e al sopirsi del dubbio e della riflessione.

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